Cittadinanza/cittadino

Definizione
Opposto allo straniero, il cittadino è colui che risulta totalmente integrato all’interno di una polis o comunità civica, non tanto da un punto di vista culturale (anche uno straniero può esserlo), quanto da un punto di vista tecnicamente giuridico: il cittadino gode delle prerogative legali garantite dal suo diritto di cittadinanza, variamente acquisito secondo le epoche e gli ambienti.

Il termine greco più frequentemente impiegato è polítes (più antico ma più vago è astós, letteralmente abitante dell’ástu, la città vera e propria, opposta ai suoi sobborghi e al suo territorio, la chóra), cui corrisponde l’astratto politeía, che indica a un tempo, con caratteristica polisemia, la «cittadinanza», la «costituzione» politica della città, il suo «governo» o in generale la «partecipazione alla vita civile» (ambiguità analoghe si riscontrano nel latino civitas, antenato fra l’altro del nostro «città»).

In un processo di progressiva astrazione, il ruolo di cittadino e la cittadinanza mantengono tuttavia un profondo legame con il meccanismo discriminatorio che li costituisce: l’opposizione fra cittadino e non-cittadino (straniero) è in Grecia – anche o soprattutto nella democratica Atene – una delle antitesi costitutive dell’identità politica e civile (accanto a quella che oppone libero e schiavo).

Forme di cittadinanza
Tanto per la Grecia classica, quanto per Roma, si è spesso parlato della cittadinanza come di un ‘mestiere’, a significare l’estremo grado di partecipazione tanto pratica quanto emotiva del cittadino al suo ruolo, ma anche l’articolato complesso di competenze tecniche e istituzionali necessarie alla sua espressione. Non è un caso se Atene (ancor più che Roma, spesso affiancata a Sparta) ha da sempre costituito un punto di riferimento per ogni grande riformulazione dell’etica comunitaria in termini di civismo, partecipazione alla cosa pubblica e impegno nella vita collettiva: il polítes greco è l’antenato, se non giuridico, certo ideologico del citoyen moderno.

Non si deve però dimenticare che la costituzione di un uomo in polítes ha sempre obbedito a meccanismi di esclusione assai rigorosi: a Sparta, per esempio, essa coincide con l’opposizione fra l’aristocrazia ristretta degli Spartiati (l’unica a godere di autentica cittadinanza) e l’insieme, determinato anche dal punto di vista razziale, dei suoi sottoposti (perieci e schiavi di tipo ilotico). Ad Atene, nella sua fase di massimo splendore, era cittadino a pieno titolo soltanto il maschio adulto libero, purché nato da genitori ateniesi e liberi anch’essi; sin dal VI secolo a.C., inoltre, pare che la cittadinanza fosse strettamente collegata alla proprietà terriera (un nesso ancora assai disputato) e certamente alla partecipazione attiva alla guerra: in breve, la nozione di cittadino viene così a coincidere – in termini di consuetudine se non addirittura in termini giuridici – con quella di proprietario terriero (anche piccolo) e con quella di soldato, cioè di adulto in grado di pagarsi almeno armi e armatura.

Con l’allargamento della cittadinanza alla classe dei teti, reso inevitabile dalla svolta marittima voluta da Temistocle (a ridosso del 480 a.C.) e dalla nuova impronta commerciale che Atene riceve a partire dal tardo arcaismo, si compie senza dubbio un notevole ‘strappo’ rispetto all’elitarismo arcaico: ma si tratta essenzialmente di un fatto numerico, e non di un fatto qualitativo. La democrazia prevede una cittadinanza quantitativamente più estesa rispetto all’aristocrazia: ma si tratta sempre – se si valutano congiuntamente la condizione femminile e la presenza massiccia di schiavi, nonché l’insieme degli stranieri residenti – di un’esigua minoranza rispetto alla popolazione effettiva della polis.

Il ricorso a nuove pratiche di selezione della cittadinanza accompagna, non a caso, ogni tentata ristrutturazione dell’ordine politico (come accadde per esempio in Atene durante i colpi di stato del 411 – cittadinanza limitata a 5000 uomini – e del 404/403 a.C. – riduzione ulteriore a 3000 uomini – e come avverrà poi alla fine del IV secolo a.C., con l’esclusione dei nullatenenti dal novero dei cittadini a pieno titolo); la sospensione o il ritiro della cittadinanza, nella forma prediletta dell’esilio, è sempre stata una delle più efficaci armi di lotta politica dell’antichità, sia greca che romana; del tutto accidentali e provvisorie le concessioni della cittadinanza a uomini estranei alla polis (come quella che Atene votò per Samo, in un momento di emergenza, alla fine del V secolo a.C.).

Tutto ciò comporta una stretta coesione fra ‘terra’ (patria) e cittadinanza, e fra quest’ultima e quella diretta partecipazione alla vita politica (alle assemblee, all’attività giudiziaria e agli altri procedimenti decisionali comunitari), culturale (il teatro attico, per esempio, era solo periodicamente aperto agli stranieri) e religiosa (la partecipazione ai sacrifici o alle feste è una prerogativa del cittadino) che costituisce, pur secondo diverse declinazioni, la cifra caratteristica della polis antica: ma che non si dà senza un fondamentale meccanismo di selezione ed esclusione.

La cittadinanza romana
Non è diverso nel principio il procedimento che regola la civitas all’interno della cultura romana, che infatti i pensatori politici greci assimilavano spesso al modello dell’aristocrazia ellenica. In origine essa appare limitata ai soli cittadini di Roma e delle sue dirette colonie, purché nati da genitori entrambi romani (solo in casi particolari si concedeva a uno straniero il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino romano). Con l’espandersi del sistema di alleanze politico-militari intrecciate da Roma nel corso della sua espansione sul suolo italico, la cittadinanza venne utilizzata come meccanismo di gratificazione politica e concessa – pur cautamente e secondo un articolato sistema di limitazioni – a molte città soggette o incluse nella sfera d’influenza romana: si ebbe così una sorta di gradazione della cittadinanza, da cittadini a pieno titolo dell’Urbs ai cittadini dei municipia, ai cittadini delle cosiddette colonie latine (cui era data facoltà di trasferirsi a Roma e di acquisire così la piena cittadinanza) sino alle semplici città alleate (prive di cittadinanza) e ai sudditi in genere.

Ma solo con la cosiddetta ‘guerra sociale’ – la lotta che gli alleati italici (socii) ingaggiarono contro Roma negli anni 90-88 a.C. – il diritto di cittadinanza (ius civitatis) venne esteso a tutti gli abitanti della penisola italiana (purché liberi), le cui città vennero considerate complessivamente alla stregua di municipia. Con la progressiva creazione del sistema provinciale mediterraneo, la cittadinanza toccò agli stati cui era riconosciuto lo statuto giuridico di provincia.

Bisognerà attendere il 212 d.C. – con l’emanazione della cosiddetta constitutio Antoniniana da parte di Caracalla – perché lo ius civitatis sia esteso a tutti i componenti dell’Impero, pur con significative restrizioni sul cui esatto valore si discute ancora (coloro che ne erano esclusi, i cosiddetti dediticii, comprendevano probabilmente le popolazioni rurali e/o barbariche di recente o imperfetta romanizzazione: dunque, ancora una volta, una sezione non trascurabile dell’effettiva popolazione imperiale).

[Federico Condello]