Lutto

Definizione
Come in ogni cultura tradizionale (e come, pur attraverso mutamenti anche assai estesi, in larga parte del mondo occidentale contemporaneo), la morte di un individuo è vissuta dalla comunità come un evento che richiede una risposta rigorosamente codificata e capace di ristabilire l’equilibrio turbato. Tale risposta si esplica essenzialmente in una manifestazione rituale del lutto e in un regolare dispositivo di onoranze funebri che, rispetto alla figura del morto, sono interpretate come ‘debito’ o ‘dovere’.

Per il mondo greco e per il mondo romano le sorti del defunto sono legate alle diverse concezioni dell’Ade o dell’oltretomba in genere, dal quale – si conviene – nessuno fa ritorno (del tutto marginali, nel mondo antico e almeno in età classica, le forme di credenza in qualche sorta di autentica vita post mortem).

Il lutto in Omero
Uno dei temi più ricorrenti nell’epica è la necessità, per il guerriero ucciso, di non rimanere «senza pianto» (áklaustos) e «senza sepoltura» (áthaptos). Per questo il comportamento di Achille nei confronti di Ettore morto, o quello di Creonte dinanzi al cadavere di Polinice, appaiono fortemente irrituali se non addirittura empi. Omero riflette così quello che si ritiene il géras («il diritto», «la parte dovuta») dei morti. Parte integrante di tale diritto è l’espressione codificata del cordoglio (pénthos è il termine che in greco designa più frequentemente lo strazio del lutto) nel «pianto rituale» (thrênos) affidato in genere, durante l’esibizione cerimoniale del morto (próthesis) a un coro di donne accompagnato da aedi, qual è quello che in Iliade XXIV 720 ss. viene intonato sul cadavere di Ettore dalla moglie Andromaca, dalla madre Ecuba e dalla ‘cognata’ Elena.

Il lamento esprime il dolore per la scomparsa del defunto, magnificandone altresì le virtù e i meriti. Solo dopo il thrênos e alla fine della próthesis (che per un morto di prestigio poteva durare anche più settimane) hanno luogo l’ekphorá vera e propria (la processione che accompagna il morto alla pira funebre) e quindi l’arsione del rogo che consumerà, con il cadavere, i suoi oggetti più preziosi.

Naturalmente Omero conosce altresì espressioni più private, ma non meno formalizzate, del pénthos: oltre al pianto e alle parole di commiserazione che è d’obbligo intonare allo stesso annuncio della morte (si veda ancora Andromaca in Iliade XXII 477 ss.), i gesti tradizionali del lutto comprendono diverse forme di autoflagellazione: dallo strapparsi i capelli, al graffiarsi il volto, all’insozzarsi capo e vesti con la cenere (esemplare il comportamento di Achille alla notizia della morte di Patroclo), al percuotersi con violenza (ne resterà traccia nel cosiddetto commo tragico).

Il lutto nella polis arcaica
Il modello più importante per l’espressione del lutto in età arcaica e classica rimane quello rappresentato nei poemi omerici, pur nel comportamento disomogeneo che le città greche assumono a fronte delle due più importanti novità introdotte, nell’àmbito dei riti funerari, fra l’età micenea e i secoli oscuri, cioè fra il II e il I millennio a.C.: l’adozione della tomba individuale (il tipo più frequente è la cosiddetta ‘tomba a cista’, che si oppone alla grande thólos micenea) e la sostituzione della cremazione all’inumazione.

Le poleis reagiscono diversamente alle due novità, ma entro un generalizzato predominio dell’aristocrazia la manifestazione del lutto e in generale la codificazione dei riti funebri (kédea) continua ad avere caratteri di pubblicità e di magnificenza che sviluppano il modello eroico. L’iconografia vascolare testimonia la durata di gesti rituali come il kopetós (le percosse sul petto da parte delle donne che accompagnano il corteo funebre e che intonano il thrênos: si trattava spesso di professioniste assoldate all’uopo, a cui i romani daranno poi il nome di praeficae e che costituiranno una realtà antropologica importante, nel meridione dell’Italia, sino a tempi recentissimi).

Particolarmente ricco doveva essere poi non solo il corredo che accompagnava il defunto nella sepoltura, ma anche il banchetto che faceva tradizionalmente séguito all’ekphorá, il perídeipnon, durante il quale i parenti rinnovavano l’elogio del morto e certamente ne magnificavano l’intero casato; tale banchetto poteva essere ripetuto più volte secondo il ritmo ternario che scandisce, per i Greci, la durata del lutto: nel terzo, nel nono e infine nel trentesimo giorno dopo la sepoltura, nonché in tutti gli anniversari.

A tali costumi funerari porrà un primo limite l’aristocrazia moderata del VI secolo a.C.: nell’Atene di Solone e Clistene risultano attestate le prime leggi suntuarie che mirano a limitare le vistose manifestazioni del lutto privato da parte dell’aristocrazia, che in esse trova altrettante occasioni di sottolineare e propagandare il suo prestigio: fra le altre cose, venivano così condannate manifestazioni troppo plateali del dolore, come le percosse sul petto o i graffi sul volto.

Il lutto privato diventerà sempre di più un affare della polis nel suo complesso, tanto a Sparta quanto ad Atene: e il ricordo del defunto (anche e soprattutto del caduto in guerra) sarà preferibilmente affidato a monumenti e cerimoniali comunitari. Secondo la leggenda raccolta da Plutarco, Licurgo a Sparta avrebbe addirittura vietato le offerte sulla tomba del defunto e l’iscrizione del nome sulle lapidi, che peraltro dovevano essere collocate entro le mura cittadine affinché il popolo fosse educato a non temere la morte e a vincere il cordoglio.

È comunque un fatto che la poesia di età arcaica abbondi in inviti a moderare o a limitare nel tempo e nello spazio le manifestazioni del lutto (ne troviamo in Archiloco e in Saffo, per esempio). È questo un segno fra gli altri dello scrupolo con cui la comunità – ben presto costituita negli organismi della polis – tende a farsi sempre più carico di ciò che ancora in Omero era affidato, se non al singolo, almeno alla famiglia e al casato.

Il lutto nella polis classica
Il processo in base al quale la città si assume l’onere di gestire il cordoglio per la morte dei suoi membri si fa ancora più forte, comprensibilmente, con lo sviluppo della democrazia ateniese. L’organismo statuale regola il pubblico lutto, ed è significativa la cerimonia per i caduti in guerra (un autentico ‘funerale di Stato’) descritta da Tucidide, Storie II 34. Il funerale, a spese della comunità, prevede che le ossa dei caduti siano raccolte in un numero di bare corrispondenti a quello delle tribù civiche (10) e che la celebrazione dei morti sia affidata non già a un pianto (góos) o a un canto funebre (thrênos), bensì a un discorso – affidato a un personaggio ragguardevole della polis – noto come ‘epitafio’ (letteralmente, «discorso sulla tomba»). Esso costituì un autentico genere letterario, di cui purtroppo non sono sopravvissuti che pochissimi esemplari (oltre al cosiddetto «epitafio di Pericle» in Tucicide, l’epitafio di Iperide per i caduti della guerra lamiaca [323-322 a.C.] e pochi altri, falsi – come quelli attribuiti a Lisia e a Demostene – o parodici – come il Menesseno attribuito a Platone).

Il miglior corrispondente romano dell’epitafio greco era la cosiddetta laudatio funebre, pronunciata nel Foro da un parente o da un personaggio politicamente autorevole (anche di tali orazioni funebri non è rimasto che qualche frammento). Del resto, le manifestazioni del lutto a Roma avevano molto in comune con quelle in uso nella polis greca: peculiarmente romana è però, durante il corteo funebre, l’esibizione delle imagines, cioè dei ritratti degli antenati (in genere maschere di cera non di rado calzate da attori professionisti).

Il tipo di controllo pubblico sul lutto, che fu tipico tanto della polis classica quanto del mondo romano (già a partire dalla XII Tavole [451-450 a.C.]), viene significativamente a mancare durante il predominio delle grandi dinastie ellenistiche: già all’inizio del IV secolo a.C. riprende l’uso, pur sporadico, di grandi tombe monumentali, che diventerà la norma con il diffondersi dell’uso macedone e che, attraverso il tipo assai diffuso del Mausoleo, farà ben presto sentire i suoi effetti anche sulla Roma tardo-repubblicana e imperiale.

[Federico Condello]